L’esperienza di “seminatario” in parrocchia (simpatica crasi tra le parole seminarista e Seminario, inventata da un ragazzo incontrato in parrocchia) in questi anni di formazione è stata per me ben più di una sorta di tirocinio o di miglioramento delle (più o meno acquisite) competenze tecnico-pratiche.
Il ruolo, se così si può dire, del seminarista in parrocchia non sempre mi è stato chiaro, soprattutto agli inizi, dopo l’esperienza pastorale nella mia parrocchia di origine a Santa Rosa da Lima. Nessuno infatti mi aveva spiegato concretamente che cosa volesse dire essere seminarista in parrocchia e che cosa dovessi fare. Piano piano ho capito che in realtà più che un “ruolo” funzionale a qualcosa, si tratta di “essere”, o meglio ancora di “esserci”. Sì, un vero e proprio “stare” nella comunità a cui si è mandati, cioè immergermi nella vita delle persone che incontro, in particolare dei ragazzi e dei giovani, mettendo costantemente al centro, anche se a volte in maniera implicita, l’incontro con Cristo.
Posso affermare che, proprio partendo da questa visione, non solo ho avuto ed ho la possibilità di tessere relazioni, il che richiede tanto tempo, che si sono rivelate molto belle e arricchenti ma di poter rendere in certo qual modo fecondo, il mio servizio attraverso esse con pazienza, pur con tutti i limiti, e nel complesso tutto ciò è una vera e propria grazia. L’esperienza della vita in parrocchia mi stimola ad agire in prima persona, “mettendo le mani in pasta” e a vivere a ritmo di dono e, in questo senso, a crescere umanamente, anche sul piano affettivo. E questa vita donata nel servizio pastorale mi riporta necessariamente a consolidare due tipi di esigenze personali: da un lato, la ricerca di una vita unificata e armonica, di un cuore integro e unito, dall’altro quella “conditio sine qua non” che è la vita spirituale. Proprio l’incontro con le persone, con le loro storie, le loro speranze, le loro gioie ed attese ma anche con i loro drammi, le loro fatiche e ferite mi ha aiutato e mi aiuta a scorgere i segni della presenza e dell’azione di Dio.
Ed è così che correre all’altare la mattina, prima di buttarmi nella missione, e la sera, una volta conclusa la giornata, per intercedere per le persone incontrate, è per me un’esigenza impellente, e quando manca ne risento realmente: solo infatti davanti al Signore, tutto quello che vivo trova il suo senso. Tale esigenza “orante” si dimostra essere l’occasione di sentire in me fluire il sangue di Cristo, di incontrarlo e di vedere la mia vita sotto il suo sguardo.
È nella preghiera che trovo la forza e lo slancio, soprattutto quando ciò che mi aspetta è più grande di me, di agire, chiedendo unicamente il dono del Santo Spirito. È nella preghiera, carica di questi sentimenti e di questi incontri, che affido tutto e tutto mi affido. Due cose infine caratterizzano la mia vita in parrocchia. La prima è la trasformazione di quanto ho studiato nel percorso teologico in cibo per gli altri, per quanti incontro, sia che si tratti di una catechesi con gli scout, o di un campo estivo, o di una chiacchierata, di un’omelia, ed è molto importante per me questo aspetto perché dà uno scopo agli anni di studio.
La seconda cosa è poi la fortuna di vivere con i sacerdoti in parrocchia, di conoscere da vicino che cosa sia la vita del pastore, di imparare ad assumere la globalità della vita pastorale, ma ancor di più quell’ansia pastorale, che, proprio alimentata dagli incontri con la gente e dall’incontro con Cristo, rientra nell’ottica di quella affettività che sento realizzata per me in quella che viene chiamata carità pastorale, la carità stessa di Cristo buon pastore.
Francesco Ariaudi