Se talvolta ragiono sull’altisonante parola “Carità”, capita di dire a me stesso: «È sbagliato. Io ho sbagliato. Quando mai ho vissuto un gesto di vera Carità?!». Arrivo a queste conclusioni perché è chiaro che con la parola “Carità” non mi riferisco strettamente all’elemosina pecuniaria data a un senzatetto. Ma neppure a un qualunque altro libero gesto di bontà che cade nel rischio di “esser fatto per esser visto dagli altri” o di venire, in qualche modo, “elogiato da me stesso”. In tal caso diventerebbe una “carità da vetrina”. Quindi mi domando se sia una finta carità, senza la maiuscola lettera “C” iniziale. È altresì giusto chiarire che non c’è proprio nulla di male nel dare, con liberalità, beni materiali o il proprio tempo a chi ne ha bisogno.
Ma allora come insegnare a vivere e crescere nella Carità? Mi ha sempre molto colpito la risposta di Gesù che ci dona l’evangelista Luca: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico …». È così che comincia la parabola del buon samaritano. Gesù non fa un trattato filosofico o teologico sulla parola “Carità”. Gesù passa direttamente all’azione. Il seminario ci propone delle esperienze di “carità attiva” attraverso dei servizi di volontariato presso alcuni enti presenti sul territorio di Torino. Proposta “buona e giusta”. Ritengo, tuttavia, che la migliore sfida e crescita di “carità attiva” che il seminario ci offre sia nella vita comunitaria. Cerco di spiegarmi meglio. È facile amare “il lontano”. Sia chi è lontano geograficamente, come un bambino in difficoltà di un altro continente, sia chi “lontano” temporalmente, ad esempio una persona cara che vedo una volta all’anno. Ma amare chi mi è accanto tutti i giorni, amare chi mi sta vicino, gomito a gomito, per la maggior parte del tempo è un altro paio di maniche. Pensiamo al collega di lavoro più antipatico, oppure, nel mio caso, al compagno di seminario.
In questo periodo stiamo tutti facendo i conti con un’altra ondata influenzale. Non per Covid, ma ha avuto il suo impatto anche nella nostra comunità. In seminario, quando qualcuno è ammalato, resta nella propria camera. Sono i fratelli di comunità che si devono preoccupare di portare il necessario al fratello ammalato. Forse sembra una sciocchezza, ma benedico e ringrazio, per quel vassoio con la colazione, il pranzo o la cena del fratello ammalato. Come qualunque altro episodio della vita, il dover portare il vassoio dal pian terreno al secondo o al terzo piano, può essere vissuto in modi molto diversi. Forse può esser visto come una scocciatura, una perdita di tempo. Forse come un qualcosa da fare per farsi vedere. Eppure, nella quotidianità e ripetitività del gesto, ciò che resta non è un dono o un’attenzione fatta ad un fratello ammalato, ma un dono che, attraverso il fratello ammalato, viene fatto a chi sporge quel vassoio.
Irvin