Lassù, tra le montagne, il ritiro con i giovani delle parrocchie Madonna della Divina Provvidenza e Santa Giovanna d’Arco è andato avanti seguendo le provocazioni nate dalla serie di Zerocalcare “Strappare lungo i bordi” e domandandoci che “bordi” da dare alla nostra vita.
I personaggi di Zerocalcare sono tutti intrappolati dentro un vortice di scontentezza e di resa davanti alla vita, perché ognuno si è programmato da sé i bordi della propria vita, li ha disegnati con le proprie convinzioni, su un progetto di vita personale, che segue le tappe di una esistenza ideale (studio, laurea, lavoro…). Ma cosa succede se invece di seguire i bordi sbagliamo a strappare? Zerocalcare dà due possibili strade: o ci mettiamo a strappare lungo i bordi con attenzione, oppure teniamo il foglietto con la nostra sagoma in mano per anni senza strappare per paura di fare danni; in entrambi i casi quel foglietto “se ciancica” cioè si stropiccia, si logora, si invecchia. Come se lo avessimo maltrattato. I personaggi di Zerocalcare sono in lotta con l’ideale. Non solo la loro vita va avanti senza seguire i trattini prefissati, ma ciascuno si riduce a una soluzione che in fondo non soddisfa. Non è nemmeno una soluzione di comodo. È a mala pena una sistemazione provvisoria. Perché in fondo il futuro è un grande punto interrogativo.
Ed è qui che si inserisce la prospettiva della fede. Si può seguire i bordi tratteggiati, e seguirli pure bene. Oppure si può andare a casaccio, e non riuscire a seguirli. Entrambe queste opzioni rivelano in definitiva lo sguardo autocentrato sulla propria vita. La sfida della fede invece permette di capire la propria vita come una vocazione. Vocazione: cioè chiamata. Una chiamata tanto reale, quanto la mia vita; una chiamata così grande che riesce però a manifestarsi dentro la mia piccola esistenza; una voce così altra, che si confonde con le voci delle persone che mi circondano. La vocazione altro non è che il coraggio di Dio che mi interpella, mi coinvolge, e non ha paura di inserire la sagoma del Figlio suo dentro la sagoma che io faccio di me. Perché la vocazione, così come la sagoma lungo i cui bordi strappare, non la trovo fuori di me, ma dentro di me. La vocazione, che talvolta sembra un successo per pochi fortunati, oppure un miraggio per i creduloni che si guadagnano un posto sicuro nel mondo, a ben guardare si rivela come la mia miglior felicità, la verità del mio essere, la soluzione della mia esistenza, la luce di ogni momento buio. È ciò che mi scalda il cuore e non mi lascia pace finché non mi decido ad afferrarla.
Ci siamo lasciati guidare alla soluzione dalla lettera “Christus vivit” di Papa Francesco, lettera scritta ai giovani al termine del Sinodo loro dedicato. “La cosa fondamentale è discernere e scoprire che ciò che vuole Gesù da ogni giovane è prima di tutto la sua amicizia. Questo è il discernimento fondamentale. Nel dialogo del Signore risorto con il suo amico Simon Pietro, la grande domanda era: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?» (Gv 21,16). In altre parole: mi vuoi come amico?” (n. 250). Il primo passo per scoprire la propria vocazione è accogliere l’amicizia di Gesù, solo così si può compiere il passo successivo, ovvero riconoscere qual è il piano del Signore per la propria vita. Continua il Papa: “per realizzare la propria vocazione è necessario sviluppare, far germogliare e coltivare tutto ciò che si è. Non si tratta di inventarsi, di creare sé stessi dal nulla, ma di scoprirsi alla luce di Dio e far fiorire il proprio essere. Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione. La tua vocazione ti orienta a tirare fuori il meglio di te stesso per la gloria di Dio e per il bene degli altri. Non si tratta solo di fare delle cose, ma di farle con un significato, con un orientamento” (n. 257).
Samuele Moro