Desiderando mantenere vivo il ricordo di don Nino tra noi, riportiamo quanto scrisse nell’annale del seminario del 2007 in occasione dei suoi cinquant’anni di sacerdozio.
Cinquant’anni di Messa
La vita sacerdotale di don Giovanni Salietti è stata dedicata in larghissima parte all’educazione. Come viceparroco, insegnante di religione, incaricato di seguire l’Azione Cattolica Ragazzi. Volti e vite ricordando i quali don Giovanni si chiede: «Sono decine di migliaia. Li avrò educati? Avrò lasciato qualcosa nel loro cuore? Li avrò aiutati a conoscere il Dio di Gesù Cristo? O li avrò traditi, trascurati, accostati solo in superficie, scandalizzati?». Ma poi ricorda che la linfa vitale della vita del prete è la preghiera, in particolare la “Liturgia delle ore” e la testimonianza della gioia pasquale: «Un credente che sprizza letizia e riconoscenza non può non essere testimone del Dio-Amore. Mi piacerebbe essere ricordato, proprio per questo, come il prete della gioia».
La scelta e le cause
Ero in prima media, 62 anni fa. Il vecchio prete festeggiava il giubileo sacerdotale. Non ricordo i contenuti teologici della sua predica, ma conservo nel cuore l’emozione curiosa suscitata dall’elenco, preciso e puntuale, delle molte migliaia di Messe che aveva celebrato nella sua lunga vita. Impressionante per il ragazzino di allora. Ed ora tocca a me. Sarò… impressionante per qualcuno?! È una domanda che ne suscita altre. Perché sono prete? Perché lo sono da cinquant’anni? E quale prete sono? E perché?
Andiamo per ordine.
Mi sono sempre chiesto a che cosa lo debba la mia vocazione al presbiterato. La prima risposta è chiaramente legata alla volontà di Dio: un misterioso disegno del Padre che mi ha voluto suo figlio così. Se poi vado alle cause seconde, il disegno sembra ingarbugliarsi, ma non troppo, in tanti tratti di forma e colore diversi. Eccone un elenco, certamente incompleto.
Se non fosse esplosa la seconda guerra mondiale e i bombardieri inglesi non si fossero divertiti a modificare le planimetrie della città di Torino io non sarei sfollato sul lago Maggiore, non avrei conosciuto don Gaspare (è il decano dei preti novaresi, centenario quest’anno), non avrei recepito la sua domanda («Nino, non ti piacerebbe farti prete come me?»), non sarei entrato in Seminario. Prima causa, dunque, la guerra.
La seconda, al dire di mio padre Guglielmo, furono i Rosari di nonna Nina, di cui porto il nome, morta sette anni prima che io nascessi. Quando infatti chiesi a papà il permesso di farmi prete, egli guardò mamma e disse: «Sono i Rosari della nonna». Rosari, detto tra noi, che mi hanno anche regalato lo splendido papà Guglielmo, abile decoratore e credente senza fronzoli. E che gli hanno fatto scegliere, tra le tante ragazze del paese, la migliore, mamma Elisabetta, tuttora vivente!
Terza causa, gli educatori dei Seminari che mi hanno formato. Uso il plurale, perché sono stato aiutato a crescere in cinque comunità e dunque da cinque équipes di formatori. Tra questi ne voglio ricordare alcuni che, a mio parere, hanno lasciato il segno.
Monsignor Eugenio Lupo, Rettore della mia adolescenza, e don Giovanni Vandoni, professore e amico dei miei anni verdi, soni i preti più significativi della mia permanenza in quel della Diocesi di Novara. Non sono diventati Vescovi, anzi uno di loro – il più intelligente – è stato vittima dell’invidia crudele di certi ambienti clericali, mentre l’altro è vissuto a lungo ed era per molti preti come un padre. Li ricordo per la carica di fiducia e di amicizia, che emanavano e per il loro linguaggio semplice e profondo che parlava al cuore di ciascuno. Avevano un progetto educativo? Non lo so, ma penso di sì, se riaffiorano a tanti anni di distanza episodi che suscitano ancora fresca riconoscenza.
Altri due educatori a cui devo il mio essere prete li raccolgo dalla permanenza nel Seminario di Rivoli. Sono don Gabriele Cossai e monsignor Giuseppe Pautasso. Non dirò molto di loro, perché molti li hanno conosciuti. A don Cossai ho aperto, finalmente, fino in fondo i miei segreti di adolescente, le paure, i sogni, le fatiche, i dubbi. Gli anni del liceo sono stati per me, grazie a lui, il tempo della seconda nascita, antica definizione dell’età evolutiva. Un sacerdote amico, attento alle persone, capace di cogliere i segreti delle relazioni tra adolescenti, consigliere semplice e profondo del nostro modo di stare con Dio e di aprirci al futuro, fedele al dialogo orale e scritto sul quaderno spirituale (che conservo e sul quale, di tanto in tanto vado a rileggere i suoi brevi commenti e suggerimenti). Di don Pautasso voglio soprattutto ricordare la parte e concreta attenzione agli aspetti umani del mio crescere. Non posso dimenticare il suo tentativo, profetico per quei tempi, di farmi colloquiare che, dopo poche battute, mi rispedì al mittente. Ma la sua premurosa attenzione si manifestò in pienezza in occasione della morte di mio padre, avvenuta quando frequentavo la seconda teologia. Il rettore mi invitava sovente ad andare in famiglia per essere accanto a mamma e sorelle e mi metteva sistematicamente in tasca un consistente malloppo per alleviare i problemi della nostra miseria. Erano i tempi nei quali avevo deciso di rientrare a casa, di cercarmi un lavoro e di diventare in qualche modo il capo famiglia. Non ebbi bisogno, grazie a lui, di attuare tale proposito.
Così, grazie a queste cause seconde e a tante altre che non conosco, o non voglio dire ma metto con riconoscenza davanti a Dio, divenni prete.
La vita del prete
Cinquant’anni da prete. Non è semplice descrivere il come. Facile invece è la sequenza delle date e dei tempi. Due anni da convittore al Santuario della Consolata, arricchiti dal servizio domenicale nella nascente parrocchia del Santissimo Nome di Maria in Torino, nella comunità di San Carlo Canavese e successivamente in quella di Leinì. Un anno come viceparroco in quest’ultima. Quattro anni di vicecura a San Gioachino, nei quartieri… residenziali di Porta Palazzo abitati in quel periodo dai giovani del Sud convocati a tamburo battente dalla Fiat. Centinaia e centinaia di ragazzi nel minuscolo cortile dell’oratorio. Nove anni nella Real Chiesa di San Lorenzo. Sedici anni in A.C.R., con estati piene di preadolescenti alla Casalpina di Mompellato e alla Colonia Frassati di San Pietro Vallemina e poi di Cesana Torinese. Ventidue anni dedicati all’insegnamento della religione in tre scuole medie e in quattro scuole superiori. Nove anni nel Seminario Maggiore come padre spirituale. Cinque anni Rettore del Seminario liceale. Da quindici anni padre spirituale nel Seminario Minore e direttore del Centro Diocesano vocazione. Da trenta animatore della Città sul Monte. Una caterva di anni, di incombenze, di luoghi. Ma soprattutto una lunga fila di ragazzi e di giovani che fanno parte della mia vita, anche se di molti non conservo neppure il ricordo. Sono decine di migliaia. Li avrò educati? Avrò lasciato qualcosa nel loro cuore? Li avrò aiutati a conoscere il Dio di Gesù Cristo? O li avrò traditi, trascurati, accostati solo in superficie, scandalizzati?
Uno stile di vita sacerdotale
Quest’ultima domanda apre il discorso del “come” sono vissuto da prete e su quanto abbia saputo vivere un serio cammino di fede e di preghiera, il dono di una sana affettività e l’esercizio della carità pastorale.
Ringrazio la saggia maternità della Chiesa che propone ai suoi preti la Liturgia delle ore e la celebrazione quotidiana dell’Eucaristia. Ho sempre cercato di esservi fedele, anche se vi fu, nel periodo della contestazione sessantottina, qualche periodo di vuoto. (“Pregare o agire?” era la domanda di allora, alla quale rispose il Vescovo padre Pellegrino, con una magistrale Lettera Pastorale). Ritagliare ogni giorno uno spazio di intimità con il Signore ricarica le batterie dell’anima e dà senso a quello che sei e che fai. Se poi ti riesce di allungare il tiro, meglio ancora. Spero comunque di “conservare la fede” fino alla fine, come è successo a San Paolo!
Fu meno efficace, a mio parere, l’educazione affettiva ricevuta in Seminario. Me ne accorsi soprattutto in un periodo difficile della mia esistenza, quando vivevo da solo ed esercitavo da tempo il mio ministero in un ambiente freddo e ostile. Non difficile, in questi casi, attaccarsi a tronchi che scorrono nel fiume in piena accanto a te, o cercare appigli sbagliati ed inutili. Mi salvò la sapiente intuizione di un grande Vescovo che, mentre vivevo quella mia situazione che egli poteva conoscere solo in parte, mi spedì a fare ciò che pensavo di non essere assolutamente in grado di svolgere: il padre spirituale in Seminario. (Del resto, nessuno dei miei compagni di corso lo avrebbe, neppure lontanamente, immaginato!). Devo riconoscenza grande a quel Vescovo, amico genuino e padre dei suoi preti, e tengo nel breviario, tra le cose più care, l’ultima sua risposta agli auguri di buon compleanno dell’ottobre 1997.
Quanto alla carità pastorale, vorrei esserne un buon alfiere, ma non è cosa semplice vivere, come pastori, l’amore gratuito di Dio. So, più o meno, come si cerca di esprimerlo a contatto diretto con le persone. Non so come lo si possa manifestare organizzando le strutture di una comunità locale, perché nella mia lunga vita non mi è mai stato chiesto di fare il parroco. (Quando i ragazzi – e talvolta anche gli adulti – mi chiamano “parroco” anziché “prete” mi interrogo dove stia la differenza: ritengo che chiarirla potrebbe aiutare tutti, noi compresi, ad apprezzare di più la nostra presenza nella Chiesa, a farla fiorire e fruttificare, ed a sollecitare e coltivare con fedeltà ed entusiasmo le vocazioni al presbiterato). Ricordo comunque il suggerimento di un giovane sacerdote – come è bello il dialogo fraterno tra preti di età diverse! – che mi confidava: «C’è una strada per avvicinarsi progressivamente al modello divino dell’amore: quella dell’esercizio della riconoscenza». Aveva ragione davvero quell’amico ancora fresco di Ordinazione. Un credente che sprizza letizia e riconoscenza non può non essere testimone del Dio-Amore. Mi piacerebbe essere ricordato, proprio per questo, come “il prete della gioia”, ma mi accorgo che il passare degli anni sembra invece usurare un poco la capacità del dono. Mi darò da fare, non è mai troppo tardi!
Bilanci
Ed ora è tempo di concludere, in tutti i sensi.
Non scriverò mai un testamento spirituale, non ne sono capace.
Posso però proclamare già fin d’ora la mia amicizia riconoscente nei confronti di tanti, piccoli e grandi, che fanno parte della mia vita: quelli che accompagnano benevolmente il mio invecchiare e quelli che mi aspettano allegri sull’altra riva.
E, poiché tutti i salmi finiscono in gloria, è sacrosanto cantare: “Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto”. Perché tutti rispondano: “Amen!”.
Don Giovanni Salietti
DON NINO SALIETTI, IL PRETE DELLA GIOIA
Desiderando mantenere vivo il ricordo di don Nino tra noi, riportiamo quanto scrisse nell’annale del seminario del 2007 in occasione dei suoi cinquant’anni di sacerdozio.
Cinquant’anni di Messa
La vita sacerdotale di don Giovanni Salietti è stata dedicata in larghissima parte all’educazione. Come viceparroco, insegnante di religione, incaricato di seguire l’Azione Cattolica Ragazzi. Volti e vite ricordando i quali don Giovanni si chiede: «Sono decine di migliaia. Li avrò educati? Avrò lasciato qualcosa nel loro cuore? Li avrò aiutati a conoscere il Dio di Gesù Cristo? O li avrò traditi, trascurati, accostati solo in superficie, scandalizzati?». Ma poi ricorda che la linfa vitale della vita del prete è la preghiera, in particolare la “Liturgia delle ore” e la testimonianza della gioia pasquale: «Un credente che sprizza letizia e riconoscenza non può non essere testimone del Dio-Amore. Mi piacerebbe essere ricordato, proprio per questo, come il prete della gioia».
La scelta e le cause
Ero in prima media, 62 anni fa. Il vecchio prete festeggiava il giubileo sacerdotale. Non ricordo i contenuti teologici della sua predica, ma conservo nel cuore l’emozione curiosa suscitata dall’elenco, preciso e puntuale, delle molte migliaia di Messe che aveva celebrato nella sua lunga vita. Impressionante per il ragazzino di allora. Ed ora tocca a me. Sarò… impressionante per qualcuno?! È una domanda che ne suscita altre. Perché sono prete? Perché lo sono da cinquant’anni? E quale prete sono? E perché?
Andiamo per ordine.
Mi sono sempre chiesto a che cosa lo debba la mia vocazione al presbiterato. La prima risposta è chiaramente legata alla volontà di Dio: un misterioso disegno del Padre che mi ha voluto suo figlio così. Se poi vado alle cause seconde, il disegno sembra ingarbugliarsi, ma non troppo, in tanti tratti di forma e colore diversi. Eccone un elenco, certamente incompleto.
Se non fosse esplosa la seconda guerra mondiale e i bombardieri inglesi non si fossero divertiti a modificare le planimetrie della città di Torino io non sarei sfollato sul lago Maggiore, non avrei conosciuto don Gaspare (è il decano dei preti novaresi, centenario quest’anno), non avrei recepito la sua domanda («Nino, non ti piacerebbe farti prete come me?»), non sarei entrato in Seminario. Prima causa, dunque, la guerra.
La seconda, al dire di mio padre Guglielmo, furono i Rosari di nonna Nina, di cui porto il nome, morta sette anni prima che io nascessi. Quando infatti chiesi a papà il permesso di farmi prete, egli guardò mamma e disse: «Sono i Rosari della nonna». Rosari, detto tra noi, che mi hanno anche regalato lo splendido papà Guglielmo, abile decoratore e credente senza fronzoli. E che gli hanno fatto scegliere, tra le tante ragazze del paese, la migliore, mamma Elisabetta, tuttora vivente!
Terza causa, gli educatori dei Seminari che mi hanno formato. Uso il plurale, perché sono stato aiutato a crescere in cinque comunità e dunque da cinque équipes di formatori. Tra questi ne voglio ricordare alcuni che, a mio parere, hanno lasciato il segno.
Monsignor Eugenio Lupo, Rettore della mia adolescenza, e don Giovanni Vandoni, professore e amico dei miei anni verdi, soni i preti più significativi della mia permanenza in quel della Diocesi di Novara. Non sono diventati Vescovi, anzi uno di loro – il più intelligente – è stato vittima dell’invidia crudele di certi ambienti clericali, mentre l’altro è vissuto a lungo ed era per molti preti come un padre. Li ricordo per la carica di fiducia e di amicizia, che emanavano e per il loro linguaggio semplice e profondo che parlava al cuore di ciascuno. Avevano un progetto educativo? Non lo so, ma penso di sì, se riaffiorano a tanti anni di distanza episodi che suscitano ancora fresca riconoscenza.
Altri due educatori a cui devo il mio essere prete li raccolgo dalla permanenza nel Seminario di Rivoli. Sono don Gabriele Cossai e monsignor Giuseppe Pautasso. Non dirò molto di loro, perché molti li hanno conosciuti. A don Cossai ho aperto, finalmente, fino in fondo i miei segreti di adolescente, le paure, i sogni, le fatiche, i dubbi. Gli anni del liceo sono stati per me, grazie a lui, il tempo della seconda nascita, antica definizione dell’età evolutiva. Un sacerdote amico, attento alle persone, capace di cogliere i segreti delle relazioni tra adolescenti, consigliere semplice e profondo del nostro modo di stare con Dio e di aprirci al futuro, fedele al dialogo orale e scritto sul quaderno spirituale (che conservo e sul quale, di tanto in tanto vado a rileggere i suoi brevi commenti e suggerimenti). Di don Pautasso voglio soprattutto ricordare la parte e concreta attenzione agli aspetti umani del mio crescere. Non posso dimenticare il suo tentativo, profetico per quei tempi, di farmi colloquiare che, dopo poche battute, mi rispedì al mittente. Ma la sua premurosa attenzione si manifestò in pienezza in occasione della morte di mio padre, avvenuta quando frequentavo la seconda teologia. Il rettore mi invitava sovente ad andare in famiglia per essere accanto a mamma e sorelle e mi metteva sistematicamente in tasca un consistente malloppo per alleviare i problemi della nostra miseria. Erano i tempi nei quali avevo deciso di rientrare a casa, di cercarmi un lavoro e di diventare in qualche modo il capo famiglia. Non ebbi bisogno, grazie a lui, di attuare tale proposito.
Così, grazie a queste cause seconde e a tante altre che non conosco, o non voglio dire ma metto con riconoscenza davanti a Dio, divenni prete.
La vita del prete
Cinquant’anni da prete. Non è semplice descrivere il come. Facile invece è la sequenza delle date e dei tempi. Due anni da convittore al Santuario della Consolata, arricchiti dal servizio domenicale nella nascente parrocchia del Santissimo Nome di Maria in Torino, nella comunità di San Carlo Canavese e successivamente in quella di Leinì. Un anno come viceparroco in quest’ultima. Quattro anni di vicecura a San Gioachino, nei quartieri… residenziali di Porta Palazzo abitati in quel periodo dai giovani del Sud convocati a tamburo battente dalla Fiat. Centinaia e centinaia di ragazzi nel minuscolo cortile dell’oratorio. Nove anni nella Real Chiesa di San Lorenzo. Sedici anni in A.C.R., con estati piene di preadolescenti alla Casalpina di Mompellato e alla Colonia Frassati di San Pietro Vallemina e poi di Cesana Torinese. Ventidue anni dedicati all’insegnamento della religione in tre scuole medie e in quattro scuole superiori. Nove anni nel Seminario Maggiore come padre spirituale. Cinque anni Rettore del Seminario liceale. Da quindici anni padre spirituale nel Seminario Minore e direttore del Centro Diocesano vocazione. Da trenta animatore della Città sul Monte. Una caterva di anni, di incombenze, di luoghi. Ma soprattutto una lunga fila di ragazzi e di giovani che fanno parte della mia vita, anche se di molti non conservo neppure il ricordo. Sono decine di migliaia. Li avrò educati? Avrò lasciato qualcosa nel loro cuore? Li avrò aiutati a conoscere il Dio di Gesù Cristo? O li avrò traditi, trascurati, accostati solo in superficie, scandalizzati?
Uno stile di vita sacerdotale
Quest’ultima domanda apre il discorso del “come” sono vissuto da prete e su quanto abbia saputo vivere un serio cammino di fede e di preghiera, il dono di una sana affettività e l’esercizio della carità pastorale.
Ringrazio la saggia maternità della Chiesa che propone ai suoi preti la Liturgia delle ore e la celebrazione quotidiana dell’Eucaristia. Ho sempre cercato di esservi fedele, anche se vi fu, nel periodo della contestazione sessantottina, qualche periodo di vuoto. (“Pregare o agire?” era la domanda di allora, alla quale rispose il Vescovo padre Pellegrino, con una magistrale Lettera Pastorale). Ritagliare ogni giorno uno spazio di intimità con il Signore ricarica le batterie dell’anima e dà senso a quello che sei e che fai. Se poi ti riesce di allungare il tiro, meglio ancora. Spero comunque di “conservare la fede” fino alla fine, come è successo a San Paolo!
Fu meno efficace, a mio parere, l’educazione affettiva ricevuta in Seminario. Me ne accorsi soprattutto in un periodo difficile della mia esistenza, quando vivevo da solo ed esercitavo da tempo il mio ministero in un ambiente freddo e ostile. Non difficile, in questi casi, attaccarsi a tronchi che scorrono nel fiume in piena accanto a te, o cercare appigli sbagliati ed inutili. Mi salvò la sapiente intuizione di un grande Vescovo che, mentre vivevo quella mia situazione che egli poteva conoscere solo in parte, mi spedì a fare ciò che pensavo di non essere assolutamente in grado di svolgere: il padre spirituale in Seminario. (Del resto, nessuno dei miei compagni di corso lo avrebbe, neppure lontanamente, immaginato!). Devo riconoscenza grande a quel Vescovo, amico genuino e padre dei suoi preti, e tengo nel breviario, tra le cose più care, l’ultima sua risposta agli auguri di buon compleanno dell’ottobre 1997.
Quanto alla carità pastorale, vorrei esserne un buon alfiere, ma non è cosa semplice vivere, come pastori, l’amore gratuito di Dio. So, più o meno, come si cerca di esprimerlo a contatto diretto con le persone. Non so come lo si possa manifestare organizzando le strutture di una comunità locale, perché nella mia lunga vita non mi è mai stato chiesto di fare il parroco. (Quando i ragazzi – e talvolta anche gli adulti – mi chiamano “parroco” anziché “prete” mi interrogo dove stia la differenza: ritengo che chiarirla potrebbe aiutare tutti, noi compresi, ad apprezzare di più la nostra presenza nella Chiesa, a farla fiorire e fruttificare, ed a sollecitare e coltivare con fedeltà ed entusiasmo le vocazioni al presbiterato). Ricordo comunque il suggerimento di un giovane sacerdote – come è bello il dialogo fraterno tra preti di età diverse! – che mi confidava: «C’è una strada per avvicinarsi progressivamente al modello divino dell’amore: quella dell’esercizio della riconoscenza». Aveva ragione davvero quell’amico ancora fresco di Ordinazione. Un credente che sprizza letizia e riconoscenza non può non essere testimone del Dio-Amore. Mi piacerebbe essere ricordato, proprio per questo, come “il prete della gioia”, ma mi accorgo che il passare degli anni sembra invece usurare un poco la capacità del dono. Mi darò da fare, non è mai troppo tardi!
Bilanci
Ed ora è tempo di concludere, in tutti i sensi.
Non scriverò mai un testamento spirituale, non ne sono capace.
Posso però proclamare già fin d’ora la mia amicizia riconoscente nei confronti di tanti, piccoli e grandi, che fanno parte della mia vita: quelli che accompagnano benevolmente il mio invecchiare e quelli che mi aspettano allegri sull’altra riva.
E, poiché tutti i salmi finiscono in gloria, è sacrosanto cantare: “Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto”. Perché tutti rispondano: “Amen!”.
Don Giovanni Salietti