LOURDES, LA VIA DEI PICCOLI

Nel sud della Francia, ai piedi dei Pirenei, c’è un paesino provinciale, insignificante, un paesino come mille altri. In questo paesino, una ragazzina di nome Bernadette e la sua famiglia vivono in condizione di grave povertà: il “cachot” in cui abitano è una stanzina ritenuta troppo malsana persino per ospitare la prigione cittadina. È l’11 febbraio 1858 quando Bernadette, in cerca di legna, si spinge fino a Massabielle, una grotta sul fiume Gave usata come discarica; lì si scopre attesa in un incontro che segnerà la sua piccola vita e le sorti di quel paesino chiamato Lourdes. Sono queste le circostanze in cui Maria è apparsa per indicare al mondo ancora una volta la via dei piccoli, quella che ha scelto suo Figlio, quella che passa da una ragazzina emarginata e ignorante, dal fango di una fonte.

A Lourdes, la Madonna usa ogni mezzo per additare la centralità di Gesù, nella riscoperta del Battesimo, nella mendicanza dell’Eucaristia. L’acqua, la roccia, la luce dei ceri, le folle, i malati, le processioni: questi segni, tutti legati al linguaggio biblico, conducono ogni pellegrino ad ammettere la propria malattia, il proprio anelito di guarigione e di riconciliazione, per scoprirsi allora raggiunto dall’amore di Dio.

L’esperienza di Lourdes sarebbe già sufficiente così, vissuta nella semplicità di un pellegrino che si fa discepolo alla grotta. Eppure, quale più grande apporto viverla in un vero clima di Chiesa! Il gesto del pellegrinaggio dona al singolo l’appartenenza a un popolo in cammino: un popolo di mendicanti, come lui. È stato così per il pellegrinaggio interassociativo della Diocesi di Torino a cui la comunità del Seminario ha aderito dal 22 al 25 aprile. Infine, ancora più che nel senso ecclesiale, il pellegrinaggio a Lourdes si compie davvero nel servizio ai malati e agli anziani che chiedono di essere accompagnati qui: nella condivisione con loro, il pellegrino si implica davvero nel messaggio del santuario.

L’abbiamo sperimentato anche noi seminaristi, che nei giorni del pellegrinaggio abbiamo conosciuto e assistito i malati delle due principali associazioni. Che grande scuola poter imparare che cos’è la speranza dagli occhi luminosi di chi ha bisogno di un aiuto, e sperimentarne insieme con loro la presenza dell’abbraccio di Maria! Personalmente, questo pellegrinaggio è stato anche occasione di memoria. Negli anni del liceo, infatti, accogliendo – seppur con un certo scetticismo iniziale – l’invito di un amico, ho fatto servizio come barelliere nell’Oftal di Casale Monferrato e, con un folto gruppo di giovani, ho preso via via familiarità con questo posto.

In particolare, fermandomi una notte a pregare alla grotta, incurante del tempo, ho scoperto il gusto dell’amicizia del Signore e intuito la possibilità di vivere di questa relazione. Insieme al desiderio di portare a tutti questa gioia che era vera per me, da qui ha cominciato a germogliare la consapevolezza di una vocazione che mi fa essere oggi al quinto anno di Seminario.

Stefano Maria Accornero

AMMISSIONE E LETTORATO

Mercoledì 29 marzo è stato un giorno di festa per la nostra comunità! Io, Giordano, Tommaso, Irvin e Stefano abbiamo fatto il rito di ammissione, il primo passaggio verso il sacerdozio, dicendo il nostro sì davanti a Dio e alla Chiesa. Il rito di ammissione è sia il riconoscimento da parte della Chiesa della bontà del cammino vocazionale di un giovane, sia la promessa da parte dei candidati al sacerdozio a continuare la loro formazione. È stata una grande emozione sentirsi chiamare per nome, dal Rettore, don Ferruccio, a nome della nostra chiesa diocesana. Nel cammino cristiano è la terza volta che siamo stati chiamati per nome: la prima volta nel battesimo e la seconda nella confermazione. Nel rito di ammissione, la Chiesa chiama per nome, dopo aver riletto insieme a noi il cammino di fede della nostra stessa vita, alla luce della vocazione donata dal Signore, frutto dell’aver vissuto con Lui. Nel sentirci chiamare risuona non solo la nostra identità illuminata dal Suo sguardo, ma anche il suono di ogni passo percorso lungo il cammino, con tutta la sua ricchezza e varietà. Tale cammino non lo facciamo da soli: insieme al nostro nome è anche pronunciato il nome della parrocchia di provenienza; questo sottolinea come una comunità cristiana sia capace di generare uomini e donne che accolgono ogni vocazione all’amore, nel nostro caso quella al sacerdozio. Entrambi i nomi, evocano un incontro: è l’incontro con il Signore, che ci ha chiamati a vivere una vita in pienezza, secondo i doni che Lui stesso ha voluto elargire a ciascuno di noi.

Ecco che noi cinque seminaristi, davanti alla nostra comunità, ai formatori, ai sacerdoti presenti e alle nostre famiglie, abbiamo promesso al nostro Arcivescovo, mons. Roberto Repole, di voler proseguire la nostra formazione, senza alcuna pretesa di compierla con le nostre sole forze, ma con piena fiducia in Colui che chi ci ha chiamato alla Sua sequela e che continua a camminare sempre al nostro fianco. Il Vescovo Roberto ha poi voluto sottolineare come non esista alcun ministero nella Chiesa che limiti la propria libertà, e che tale libertà va rinnovata ogni giorno. Con questo desiderio nel cuore, vogliamo quindi accogliere ogni giorno che ci viene donato dal Signore, cercando di vivere in pienezza la bellezza della vita. Il passo successivo è stato quello del ministero del lettorato, ricevuto insieme al mio fratello Giordano, il 30 aprile, festa del Buon Pastore, insieme anche agli aspiranti diaconi. Il lettorato è il primo ministero che si riceve dopo il rito di ammissione: una volta confermati nel nostro cammino, ora siamo chiamati ad annunciare quella Parola che plasmato il nostro cuore.

È significativo il fatto che, riconosciuta la nostra identità con l’essere stati chiamati per nome, siamo chiamati ad annunciare una parola che non ci appartiene, non è nostra, ma è la Parola di Dio che, meditata e vissuta, è entrata nella nostra vita e continua a guidarci nel compiere la volontà di Dio. Il ministero ricevuto, come ogni ministero nella Chiesa, è un servizio all’unico pastore, il Risorto. Insieme al Buon Pastore, continuiamo a camminare alla sua sequela, per continuare a crescere nella via dell’amore e per far in modo che, come è avvenuto per noi, si possa realizzare l’incontro unico, irripetibile, per ogni donna e ogni uomo con il Risorto. Desideriamo che anche per coloro che incontriamo e serviamo, si realizzi la Parola del Signore: “che abbiano la vita e che l’abbiano in abbondanza”.

Guglielmo Besselva

UN SEMINARISTA DAL TOGO

Mi chiamo Joseph Kpodzro e dal 2016 ho iniziato il mio cammino di discernimento verso il sacerdozio nella comunità propedeutica di Pianezza e tutt’ora continuo presso il Seminario Maggiore dell’Arcidiocesi di Torino. Da ottobre 2022 svolgo il servizio pastorale presso la parrocchia del Sacro Cuore di Gesù come seminarista della diocesi di Casale Monferrato.

Sono nato e cresciuto nella città di Lomé, in Togo, in una famiglia cattolica che mi ha trasmesso fin da piccolo la fede e l’appartenenza ecclesiale. Oltre al fattore culturale e alla famiglia, anche la comunità svolge un ruolo importante nell’educazione togolese: questo agevola l’integrazione nell’ambiente ecclesiale.

Ogni domenica, ricordo, ci si recava alla messa e per me era nello stesso tempo qualcosa di ordinario e magnifico: vedere i sacerdoti che celebravano la messa e attorno a loro la comunità che si radunava numerosissima per la mensa del Signore, è un’esperienza che mi stupisce ancora oggi!! Tutti insieme con lo scopo di incontrare il Signore. All’età di 21 anni, dopo un percorso con il mio parroco e con il gruppo vocazionale, ho deciso di proseguire il mio cammino di discernimento che mi ha portato in seminario.

Si trattava di realizzare un desiderio profondo che avevo nel cuore, sin da ragazzo, ma si trattava anche di decidere di lasciare le certezze della mia vita, la mia famiglia, lasciare il mio paese natale, e tutte le relazioni per perseguire un desiderio: seguire il Signore.

Facendo riferimento ad un passo del Vangelo che mi è caro, mi sono sentito un po’ come il “figliol prodigo” che ha chiesto al padre la sua parte di eredità ed è partito per un paese lontano senza avere riferimenti, per vivere e realizzare la propria vita. Sono arrivato in Italia, accolto nella diocesi di Casale. Dopo alcuni mesi di studio della lingua italiana, mi è stata proposta un’esperienza di volontariato al Sermig, dove ho potuto sperimentare e toccare con mano la vita delle persone bisognose, che non soltanto cercavano medicinali o cose di cui sfamarsi o vestirsi, ma in particolare relazioni. Attraverso soprattutto relazioni con giovani di diverse parrocchie, mi sono reso conto della gioia e della pace che mi riempivano il cuore. L’esperienza in seminario mi ha aiutato a comprendere di non voler limitare quella gioia e pace che sentivo nel cuore e di desiderare di condividerle con le persone che mi sono accanto.

L’esempio e la testimonianza dei sacerdoti che ho incontrato nel corso del mio cammino mi hanno aiutato a capire meglio l’importanza della mia vocazione e cosa significhi rispondere a questa chiamata.

Tutto questo ha accresciuto il desiderio di servire il Signore e negli anni si è fatta sempre più strada l’idea di farlo concretamente, attraverso il sacerdozio. Ho compreso che il Signore vuole la mia felicità attraverso quella pace e quella gioia che sentivo. Ognuno di noi è chiamato ad essere felice: si tratta di capire in che cosa consiste la vera felicità per ciascuno, e mettersi in cammino per raggiungerla e viverla in pienezza con la propria vita.

Joseph Kpodzro

UN CUORE MISSIONARIO

In dialogo con Padre Raffaele Manenti

Le giornate dal 13 al 15 marzo hanno visto la presenza nel nostro Seminario Maggiore di Padre Raffaele Manenti, missionario del Pime (Pontificio Istituto missioni estere), dal 2019 consigliere dell’Istituto. La sua testimonianza è stata semplice ma allo stesso tempo ricca di stimoli per il nostro cammino verso il servizio presbiterale nella Chiesa di Torino.

Raccontaci qualcosa di te: quando hai capito che dovevi seguire il Signore sulla via del sacerdozio, e nello specifico nel carisma missionario?

Sono nato nel 1957, nelle montagne di Bergamo a Oltre il Colle. La mia vocazione si potrebbe definire “classica”. Ho fatto servizio in Parrocchia come chierichetto, poi sono entrato nel Seminario Minore del Pime a undici anni – erano anni di numerose vocazioni – con lo scopo di portare Gesù a chi non lo conosceva, scegliendo così la vita missionaria a quella diocesana.

Quali sono state le tue esperienze di missione?

Sono diventano prete nel 1982, dopo la Teologia a Monza. Il mio impegno missionario nasce già ai tempi degli studi attraverso l’apostolato nelle campagne. Diventato diacono, volevo andare in Thailandia, anche se ero disponibile a qualsiasi destinazione. Non partì subito, mi chiesero infatti di restare in Italia. Si presentò la possibilità di andare in Thailandia, e vi rimasi dieci anni. Mi chiesero poi di fare il rettore del Seminario in India, esperienza che durò dodici anni. Solo dopo tornai in Thailandia e vi rimasi per altri tredici anni. Successivamente, i miei superiori mi chiamarono di nuovo in Italia come padre spirituale nel Seminario Teologico Internazionale di Monza. Ho sempre vissuto questi cambi con grande libertà interiore, in spirito di obbedienza alla volontà del Signore mediata dai superiori: il Signore non ci lascia mai a piedi!

Puoi raccontarci qualcosa sulla missione in Thailandia?

La nostra missione in Thailandia nasce con lo scopo di creare un dialogo con il Buddismo. Questa missione fallisce però ben presto. Dopo tre anni dall’arrivo in Thailandia, i primi missionari intrapresero allora il “dialogo di vita”, inserendosi nella quotidianità degli abitanti del luogo. Dopo quarant’anni, un giovane missionario decise di studiare il Buddismo nella facoltà thailandese, e questo determinò la nascita di rapporti di amicizia con i monaci buddisti, aprendo così la porta a nuovi orizzonti di dialogo. In Thailandia i cattolici rappresentano una percentuale molto bassa della popolazione (300.000 persone, circa lo 0, 5%).  Quella del Pime non è l’unica presenza missionaria. Troviamo anche ben inserito il Movimento dei Focolari, fondato da Chiara Lubich. La missione del Pime in Thailandia ha portato negli anni diverse conversioni di adulti. Si stima in un anno la celebrazione di circa 3.000 battesimi di persone adulte. Resta invece aperta la grande sfida educativa per i giovani. Domina in Thailandia – soprattutto nelle città – il mercato della droga e quello della prostituzione di ogni genere. La pastorale giovane è molto in crisi e resta legata alle scuole. Il catecumenato degli adulti porta però grandi frutti: i laici che terminano il cammino catecumenale prestano con impegno il loro servizio in comunità diventando promotori di numerose conversioni.

Cosa serve oggi per una testimonianza efficace?

Intanto, non bisogna idealizzare troppo la missione. Il mio professore Silvano Fausti diceva che “se un missionario è un asino, con la macchina, fa ancora più danni”. Può sembrare una battuta, ma è la verità. Il missionario – preso dalle faccende di ogni giorno – rischia di correre da un posto all’altro, cadendo anche lui nella trappola del fare. Per una testimonianza vera bisogna essere testimoni autentici dell’incontro con il Signore, consapevoli che la nostra missione spesso ha successo nonostante noi (come insegna il libro di Giona). Il missionario è solo uno strumento. Vi racconto una breve esperienza. Una mamma cinese era arrivata a sparare al marito perché questi l’aveva tradita. Per fortuna sbagliò la mira. Il giorno stesso questa mamma trovò una chiesa e, rapita dal canto, vi entrò e quel giorno cominciò il cammino di conversione, anche grazie al dialogo con il missionario di quella Chiesa. Oggi questa mamma è formatrice del gruppo dei catecumeni della sua comunità. Questa storia insegna molte cose sulla missione. Avere un cuore missionario: ecco il segreto della missione. Non serve necessariamente viaggiare per vivere la missione. La missione è quella che ciascuno vive anzitutto nell’ordinarietà della vita: si comincia con l’amare il fratello e la sorella che si ha accanto.

Sei ancora innamorato del Signore dopo tanti anni? Non ero mai stato in ospedale durante la missione. Ci sono entrato due volte, tornato dalla missione in Asia. L’ultima volta che sono andato in ospedale mi hanno trovato un tumore linfatico. Un giorno, mentre ricevevo la comunione, chiesi al Signore che fosse fatta la Sua volontà. Mi fecero poi gli accertamenti del caso: la febbre era sparita e il male scomparso. Anche grazie a questa esperienza, ancora oggi sento viva la presenza del Signore nella mia vita.

Gruppo GAMIS

IMPARIAMO L’AMORE

“Infatti gli uomini, sia agli inizi sia nel presente, hanno iniziato a esercitare la filosofia attraverso la meraviglia”. (Aristotele)

Devo ammettere che il 26 settembre del 2022, quando ho iniziato il mio percorso in seminario, con grande “meraviglia” e con il cuore pieno di gioia ho guardato ad una delle “colonne” portanti del nostro percorso formativo di seminaristi: la formazione teologica. Da subito, non mi sono aspettato delle risposte certe, ma aiutato dai miei docenti ho sempre cercato nello studio della teologia di approfondire il grande mistero di Dio, conoscerlo, per viverlo in pieno nell’ordinaria quotidianità della vita. In questo grande mistero riconosco sempre più il volto di Dio padre e la grande bellezza di questo rapporto filiale, un rapporto d’amore.

Comprendere ed accostarsi allo studio della teologia mi porta a ricercare la bellezza della fede, non come atto soltanto razionalistico, ma come un approfondimento che mi auguro sempre di vivere nel concreto della vita quotidiana, insieme ai fratelli. Guardo allo studio della teologia nello spirito del servizio, quello Spirito che ci spinge a condividere e a testimoniare quello che viviamo, cercando di tenere gli occhi fissi su Gesù, testimoniando l’Amore di Dio rivelato, non ai sapienti, ma per i piccoli del mondo.

Mi piace ricordare una frase del servo di Dio, il giudice ucciso dalla mafia, Rosario Livatino, che dice: “Alla fine della vita non ci verrà chiesto quanto siamo stati credenti, ma credibili”. La teologia, aiuta a rispondere alle esigenze e alle questioni del mondo, annunciando sempre Cristo, crocifisso, morto e risorto, che è la pienezza della nostra vita.

Con grande gioia, condivido questo percorso con tanti compagni; molto importante per me è il confronto, che apre sempre una strada fraterna, comunionale e di continua crescita umana e spirituale. Ringrazio il Signore per questo grande dono, sperando di poter crescere sempre di più nella conoscenza del suo amore, ma soprattutto di viverlo là dove il Signore mi dona di vivere e di servire la Chiesa.

Michele Turrisi

VITA IN PARROCCHIA

L’esperienza di “seminatario” in parrocchia (simpatica crasi tra le parole seminarista e Seminario, inventata da un ragazzo incontrato in parrocchia) in questi anni di formazione è stata per me ben più di una sorta di tirocinio o di miglioramento delle (più o meno acquisite) competenze tecnico-pratiche.

Il ruolo, se così si può dire, del seminarista in parrocchia non sempre mi è stato chiaro, soprattutto agli inizi, dopo l’esperienza pastorale nella mia parrocchia di origine a Santa Rosa da Lima. Nessuno infatti mi aveva spiegato concretamente che cosa volesse dire essere seminarista in parrocchia e che cosa dovessi fare. Piano piano ho capito che in realtà più che un “ruolo” funzionale a qualcosa, si tratta di “essere”, o meglio ancora di “esserci”. Sì, un vero e proprio “stare” nella comunità a cui si è mandati, cioè immergermi nella vita delle persone che incontro, in particolare dei ragazzi e dei giovani, mettendo costantemente al centro, anche se a volte in maniera implicita, l’incontro con Cristo.

Posso affermare che, proprio partendo da questa visione, non solo ho avuto ed ho la possibilità di tessere relazioni, il che richiede tanto tempo, che si sono rivelate molto belle e arricchenti ma di poter rendere in certo qual modo fecondo, il mio servizio attraverso esse con pazienza, pur con tutti i limiti, e nel complesso tutto ciò è una vera e propria grazia. L’esperienza della vita in parrocchia mi stimola ad agire in prima persona, “mettendo le mani in pasta” e a vivere a ritmo di dono e, in questo senso, a crescere umanamente, anche sul piano affettivo. E questa vita donata nel servizio pastorale mi riporta necessariamente a consolidare due tipi di esigenze personali: da un lato, la ricerca di una vita unificata e armonica, di un cuore integro e unito, dall’altro quella “conditio sine qua non” che è la vita spirituale. Proprio l’incontro con le persone, con le loro storie, le loro speranze, le loro gioie ed attese ma anche con i loro drammi, le loro fatiche e ferite mi ha aiutato e mi aiuta a scorgere i segni della presenza e dell’azione di Dio.

Ed è così che correre all’altare la mattina, prima di buttarmi nella missione, e la sera, una volta conclusa la giornata, per intercedere per le persone incontrate, è per me un’esigenza impellente, e quando manca ne risento realmente: solo infatti davanti al Signore, tutto quello che vivo trova il suo senso. Tale esigenza “orante” si dimostra essere l’occasione di sentire in me fluire il sangue di Cristo, di incontrarlo e di vedere la mia vita sotto il suo sguardo.

È nella preghiera che trovo la forza e lo slancio, soprattutto quando ciò che mi aspetta è più grande di me, di agire, chiedendo unicamente il dono del Santo Spirito. È nella preghiera, carica di questi sentimenti e di questi incontri, che affido tutto e tutto mi affido. Due cose infine caratterizzano la mia vita in parrocchia. La prima è la trasformazione di quanto ho studiato nel percorso teologico in cibo per gli altri, per quanti incontro, sia che si tratti di una catechesi con gli scout, o di un campo estivo, o di una chiacchierata, di un’omelia, ed è molto importante per me questo aspetto perché dà uno scopo agli anni di studio.

La seconda cosa è poi la fortuna di vivere con i sacerdoti in parrocchia, di conoscere da vicino che cosa sia la vita del pastore, di imparare ad assumere la globalità della vita pastorale, ma ancor di più quell’ansia pastorale, che, proprio alimentata dagli incontri con la gente e dall’incontro con Cristo, rientra nell’ottica di quella affettività che sento realizzata per me in quella che viene chiamata carità pastorale, la carità stessa di Cristo buon pastore.

Francesco Ariaudi

RICONQUISTATI DALL’AMORE DI CRISTO

Dopo la sessione esami e una settimana trascorsa nelle parrocchie, dal 29 gennaio al 4 febbraio la nostra comunità del Seminario si è ritirata a Susa presso la casa di spiritualità Villa San Pietro, gestita dalle suore di San Giuseppe, per vivere gli esercizi spirituali: un tempo prezioso per approfondire l’amicizia con il Signore.
Quest’anno ci è stata proposta l’esperienza degli esercizi spirituali personalmente guidati e siamo stati da subito introdotti al metodo di preghiera ignaziano che fornisce alcuni strumenti utili per sentire e gustare profondamente la Parola di Dio e per entrare in un dialogo vero e schietto con il Signore, come tra amici.


Il primo giorno abbiamo meditato il prologo del Vangelo di Giovanni (“Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”) e abbiamo chiesto la grazia di essere aiutati a vedere come il Signore ha operato e opera nella nostra vita.
Da questo punto di partenza comune ognuno ha poi preso la strada per la quale lo Spirito l’ha condotto. Ciascun seminarista è stato assegnato ad uno dei quattro componenti dell’equipe: un laico, un padre gesuita, una suora e un sacerdote diocesano; persone molto diverse tra di loro ma accomunate da una fede profonda. Ogni giorno avevamo un appuntamento con la guida per condividere il vissuto di preghiera e ci venivano così proposti nuovi brani da meditare e nuove grazie da chiedere.


Oltre le meditazioni personali, non sono mancati i momenti di preghiera comunitaria: le lodi, i vespri, la Messa e l’adorazione eucaristica. Tutti i giorni sono stati accompagnati da un grande silenzio che non è stato un semplice non parlare, ma uno spazio di dialogo intimo con il Signore e un’apertura del cuore alla Bellezza che si è fatta presente in molte forme.
Personalmente, questo silenzio mi ha permesso di gioire per il creato con le sue maestose montagne imbiancate, il tepore del sole, il soffio del vento, il sapore dei cibi e soprattutto mi ha fatto guardare con occhi nuovi i volti dei miei compagni di viaggio. Questi esercizi mi hanno permesso di tornare con essenzialità a vivere il mio rapporto personale con Cristo: è Lui, infatti, che per primo mi è venuto incontro e – da quando mi sono lasciato conquistare dal suo amore – la mia identità non può essere separata da Lui. Sono un figlio prezioso di un Padre misericordioso e buono.


L’ultima sera abbiamo condiviso le nostre esperienze e tutti siamo stati grati del tempo che abbiamo trascorso con il Signore. Mi ha impressionato il fatto che ognuno di noi ha meditato testi diversi, ognuno ha fatto percorsi diversi, eppure tutti abbiamo approfondito la comune amicizia con il Signore e tutti abbiamo riscoperto la gioia di averlo incontrato nelle nostre vite; è questo che ci rende veramente fratelli. Intuisco allora che il più grande contributo che possiamo dare al mondo è il nostro sì quotidiano a Cristo, perché solo così ci inseriamo in questa grande storia di amore di cui tutti hanno – più o meno consapevolmente – bisogno. Il canto d’ingresso dell’ultima Messa della settimana esprime bene la promessa che abbiamo avuto la grazia di verificare: “Tu sei un Dio fedele per l’eternità”

IL VASSOIO DELLA CARITÀ

Se talvolta ragiono sull’altisonante parola “Carità”, capita di dire a me stesso: «È sbagliato. Io ho sbagliato. Quando mai ho vissuto un gesto di vera Carità?!». Arrivo a queste conclusioni perché è chiaro che con la parola “Carità” non mi riferisco strettamente all’elemosina pecuniaria data a un senzatetto. Ma neppure a un qualunque altro libero gesto di bontà che cade nel rischio di “esser fatto per esser visto dagli altri” o di venire, in qualche modo, “elogiato da me stesso”. In tal caso diventerebbe una “carità da vetrina”. Quindi mi domando se sia una finta carità, senza la maiuscola lettera “C” iniziale. È altresì giusto chiarire che non c’è proprio nulla di male nel dare, con liberalità, beni materiali o il proprio tempo a chi ne ha bisogno.

Ma allora come insegnare a vivere e crescere nella Carità? Mi ha sempre molto colpito la risposta di Gesù che ci dona l’evangelista Luca: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico …». È così che comincia la parabola del buon samaritano. Gesù non fa un trattato filosofico o teologico sulla parola “Carità”. Gesù passa direttamente all’azione. Il seminario ci propone delle esperienze di “carità attiva” attraverso dei servizi di volontariato presso alcuni enti presenti sul territorio di Torino. Proposta “buona e giusta”. Ritengo, tuttavia, che la migliore sfida e crescita di “carità attiva” che il seminario ci offre sia nella vita comunitaria. Cerco di spiegarmi meglio. È facile amare “il lontano”. Sia chi è lontano geograficamente, come un bambino in difficoltà di un altro continente, sia chi “lontano” temporalmente, ad esempio una persona cara che vedo una volta all’anno. Ma amare chi mi è accanto tutti i giorni, amare chi mi sta vicino, gomito a gomito, per la maggior parte del tempo è un altro paio di maniche. Pensiamo al collega di lavoro più antipatico, oppure, nel mio caso, al compagno di seminario.

In questo periodo stiamo tutti facendo i conti con un’altra ondata influenzale. Non per Covid, ma ha avuto il suo impatto anche nella nostra comunità. In seminario, quando qualcuno è ammalato, resta nella propria camera. Sono i fratelli di comunità che si devono preoccupare di portare il necessario al fratello ammalato. Forse sembra una sciocchezza, ma benedico e ringrazio, per quel vassoio con la colazione, il pranzo o la cena del fratello ammalato. Come qualunque altro episodio della vita, il dover portare il vassoio dal pian terreno al secondo o al terzo piano, può essere vissuto in modi molto diversi. Forse può esser visto come una scocciatura, una perdita di tempo. Forse come un qualcosa da fare per farsi vedere. Eppure, nella quotidianità e ripetitività del gesto, ciò che resta non è un dono o un’attenzione fatta ad un fratello ammalato, ma un dono che, attraverso il fratello ammalato, viene fatto a chi sporge quel vassoio.

Irvin

INSTANCABILI, MITI, PERSEVERANTI

Quando il 22 ottobre, io e i miei tre compagni, Fabio, Francesco e Luca, siamo stati ordinati diaconi, all’inizio della Messa abbiamo ascoltato una bella preghiera con cui si chiede che coloro che ricevono il ministero del diaconato siano “instancabili nell’azione”, “miti nel servizio della comunità”, “perseveranti nella preghiera”. Sono parole che mi hanno colpito profondamente e che penso possano riassumere bene il ministero di un diacono. Sono parole che richiedono di diventare sempre più vita vissuta e in quest’ultimo mese ho iniziato ad assaporarne il gusto.

Essere instancabile non significa non essere mai stanco, ma è l’atteggiamento di chi è disponibile a mettersi in gioco nei piccoli e grandi servizi che vengono chiesti con il desiderio di fare bene.

Mite è colui che vive il servizio con gioia, che prova a metterci il sorriso, nelle situazioni più disparate e con le persone più diverse.

Perseverante, in questo caso nella preghiera, è colui che ogni giorno prova ad affidare tutto al Signore, sapendo che quella preghiera, invece di essere un “dovere”, è nutrimento per la propria vita e per il mondo.

Come fare tutto questo? Direi impossibile!

Sì, perché se penso di farcela soltanto con le mie povere forze, fallisco. Per me infatti, è importante ricordare ogni giorno che il ministero del diaconato è innanzitutto un dono, qualcosa che ho ricevuto. Un dono non lo si riceve per qualche merito particolare, ma perché qualcuno desidera riempirti la vita gratuitamente, così come sei, con tutti i pregi e nonostante i limiti, in definitiva perché ti ama. 

Allora tutto questo mette pace perché so che non dipende totalmente da me, ma da Dio; ciò che spetta a me è rendermi disponibile a Lui. Prima di essere ordinati diaconi, infatti, abbiamo messo le nostre mani in quelle del vescovo, in segno di abbandono e di disponibilità.

In questo primo periodo un aiuto grande è quello della comunità. Noi diaconi siamo ancora parte della comunità del Seminario, in cui siamo cresciuti per diversi anni, ma allo stesso tempo ci immergiamo sempre di più nelle comunità parrocchiali in cui prestiamo il nostro servizio. È fondamentale accorgersi di questo accompagnamento fedele che ci ricorda che non siamo da soli, ma che viviamo tutto nella Chiesa.

Allora essere “instancabili, miti e perseveranti” acquista ancora più senso, perché significa non tenere nulla per sé, ma ridonare tutto a Dio e ai fratelli.

-Stefano B.

REMEBER ME – GMG DIOCESANA

In attesa della Giornata Mondiale dei Giovani 2023 di Lisbona,
sabato 19 novembre abbiamo vissuto la GMG diocesana nel chiostro della Facoltà Teologica: una bella occasione per incontrarsi tra giovani, ritrovare amici, compagni di viaggio dalle GMG passate e trasmettere ai più giovani il fatto che certe emozioni sono ancora molto vive, anche se sono passati alcuni anni.

Al termine della serata conviviale, arriviamo però al centro “nevralgico” della GMG: la preghiera in Cattedrale guidata dal nostro Arcivescovo Roberto. Lui ci ha portato a riflettere sul brano del ladrone buono, sulla sua richiesta a Gesù, dando il focus a Gesù, pupilla dell’occhio del Padre, cioè occhio attraverso cui Dio Padre guarda agli uomini, a noi, a me.


Gesù ci guarda con uno sguardo di amore che riesce a perdonare ciò che noi troviamo imperdonabile e inammissibile, con uno sguardo che accoglie anche ciò che noi troviamo inaccettabile; proprio quel Gesù crocifisso, che ci rivela tutto l’amore di cui è capace Dio per gli uomini, anche per i più lontani da Lui.

Spesso capita di pensare che per essere apprezzati e amati non dobbiamo far vedere i nostri limiti, i nostri difetti, il fatto che non siamo così bravi come gli altri immaginano o che per essere apprezzati e amati dobbiamo fare in modo che non emergano quelle parti che ci spaventano di più.

E così finiamo per indossare maschere davanti a chi ci vuole bene, a chi ci circonda, a chi frequentiamo anche tra gli amici… 

Il pegno da pagare per poter sentire un po’ di apprezzamento e un po’ di amore, è quello di una certa menzogna, che consiste spesso nel non fare vedere agli altri quella parte di noi che ci sembra meno amabile.

Ma abbiamo potuto riconoscere grazie al nostro Arcivescovo che ci sentiremo davvero apprezzati e amati solo quando avremo la possibilità di presentarci senza maschere, per quello che davvero siamo, senza avere più paura di noi stessi. Finché non ci troveremo davanti a qualcuno che ci può dire «Ti voglio bene» o «Ti amo», conoscendo anche la parte tenebrosa di noi, anche quegli aspetti che vorremmo tenere nascosti, quelle parti che noi stessi facciamo fatica a vedere e amare di noi… non faremo mai l’esperienza autentica dell’ amore. 

Solo Cristo riesce a guardarci sempre, in ogni momento con un occhio acceso d’Amore: amore per me e per ognuno di noi.

In attesa dell’incontro di Lisbona, questo può diventare uno spunto importante di riflessione per riconoscerci fragili e per questo speciali agli occhi di Dio e dei fratelli che ci circondano. E arrivare così un giorno a dire, come Olivier Clément, teologo ortodosso, al termine della sua vita: «Finalmente Olivier Clément non ha più paura di Olivier Clément»

Saverio