UN CUORE MISSIONARIO

In dialogo con Padre Raffaele Manenti

Le giornate dal 13 al 15 marzo hanno visto la presenza nel nostro Seminario Maggiore di Padre Raffaele Manenti, missionario del Pime (Pontificio Istituto missioni estere), dal 2019 consigliere dell’Istituto. La sua testimonianza è stata semplice ma allo stesso tempo ricca di stimoli per il nostro cammino verso il servizio presbiterale nella Chiesa di Torino.

Raccontaci qualcosa di te: quando hai capito che dovevi seguire il Signore sulla via del sacerdozio, e nello specifico nel carisma missionario?

Sono nato nel 1957, nelle montagne di Bergamo a Oltre il Colle. La mia vocazione si potrebbe definire “classica”. Ho fatto servizio in Parrocchia come chierichetto, poi sono entrato nel Seminario Minore del Pime a undici anni – erano anni di numerose vocazioni – con lo scopo di portare Gesù a chi non lo conosceva, scegliendo così la vita missionaria a quella diocesana.

Quali sono state le tue esperienze di missione?

Sono diventano prete nel 1982, dopo la Teologia a Monza. Il mio impegno missionario nasce già ai tempi degli studi attraverso l’apostolato nelle campagne. Diventato diacono, volevo andare in Thailandia, anche se ero disponibile a qualsiasi destinazione. Non partì subito, mi chiesero infatti di restare in Italia. Si presentò la possibilità di andare in Thailandia, e vi rimasi dieci anni. Mi chiesero poi di fare il rettore del Seminario in India, esperienza che durò dodici anni. Solo dopo tornai in Thailandia e vi rimasi per altri tredici anni. Successivamente, i miei superiori mi chiamarono di nuovo in Italia come padre spirituale nel Seminario Teologico Internazionale di Monza. Ho sempre vissuto questi cambi con grande libertà interiore, in spirito di obbedienza alla volontà del Signore mediata dai superiori: il Signore non ci lascia mai a piedi!

Puoi raccontarci qualcosa sulla missione in Thailandia?

La nostra missione in Thailandia nasce con lo scopo di creare un dialogo con il Buddismo. Questa missione fallisce però ben presto. Dopo tre anni dall’arrivo in Thailandia, i primi missionari intrapresero allora il “dialogo di vita”, inserendosi nella quotidianità degli abitanti del luogo. Dopo quarant’anni, un giovane missionario decise di studiare il Buddismo nella facoltà thailandese, e questo determinò la nascita di rapporti di amicizia con i monaci buddisti, aprendo così la porta a nuovi orizzonti di dialogo. In Thailandia i cattolici rappresentano una percentuale molto bassa della popolazione (300.000 persone, circa lo 0, 5%).  Quella del Pime non è l’unica presenza missionaria. Troviamo anche ben inserito il Movimento dei Focolari, fondato da Chiara Lubich. La missione del Pime in Thailandia ha portato negli anni diverse conversioni di adulti. Si stima in un anno la celebrazione di circa 3.000 battesimi di persone adulte. Resta invece aperta la grande sfida educativa per i giovani. Domina in Thailandia – soprattutto nelle città – il mercato della droga e quello della prostituzione di ogni genere. La pastorale giovane è molto in crisi e resta legata alle scuole. Il catecumenato degli adulti porta però grandi frutti: i laici che terminano il cammino catecumenale prestano con impegno il loro servizio in comunità diventando promotori di numerose conversioni.

Cosa serve oggi per una testimonianza efficace?

Intanto, non bisogna idealizzare troppo la missione. Il mio professore Silvano Fausti diceva che “se un missionario è un asino, con la macchina, fa ancora più danni”. Può sembrare una battuta, ma è la verità. Il missionario – preso dalle faccende di ogni giorno – rischia di correre da un posto all’altro, cadendo anche lui nella trappola del fare. Per una testimonianza vera bisogna essere testimoni autentici dell’incontro con il Signore, consapevoli che la nostra missione spesso ha successo nonostante noi (come insegna il libro di Giona). Il missionario è solo uno strumento. Vi racconto una breve esperienza. Una mamma cinese era arrivata a sparare al marito perché questi l’aveva tradita. Per fortuna sbagliò la mira. Il giorno stesso questa mamma trovò una chiesa e, rapita dal canto, vi entrò e quel giorno cominciò il cammino di conversione, anche grazie al dialogo con il missionario di quella Chiesa. Oggi questa mamma è formatrice del gruppo dei catecumeni della sua comunità. Questa storia insegna molte cose sulla missione. Avere un cuore missionario: ecco il segreto della missione. Non serve necessariamente viaggiare per vivere la missione. La missione è quella che ciascuno vive anzitutto nell’ordinarietà della vita: si comincia con l’amare il fratello e la sorella che si ha accanto.

Sei ancora innamorato del Signore dopo tanti anni? Non ero mai stato in ospedale durante la missione. Ci sono entrato due volte, tornato dalla missione in Asia. L’ultima volta che sono andato in ospedale mi hanno trovato un tumore linfatico. Un giorno, mentre ricevevo la comunione, chiesi al Signore che fosse fatta la Sua volontà. Mi fecero poi gli accertamenti del caso: la febbre era sparita e il male scomparso. Anche grazie a questa esperienza, ancora oggi sento viva la presenza del Signore nella mia vita.

Gruppo GAMIS

IMPARIAMO L’AMORE

“Infatti gli uomini, sia agli inizi sia nel presente, hanno iniziato a esercitare la filosofia attraverso la meraviglia”. (Aristotele)

Devo ammettere che il 26 settembre del 2022, quando ho iniziato il mio percorso in seminario, con grande “meraviglia” e con il cuore pieno di gioia ho guardato ad una delle “colonne” portanti del nostro percorso formativo di seminaristi: la formazione teologica. Da subito, non mi sono aspettato delle risposte certe, ma aiutato dai miei docenti ho sempre cercato nello studio della teologia di approfondire il grande mistero di Dio, conoscerlo, per viverlo in pieno nell’ordinaria quotidianità della vita. In questo grande mistero riconosco sempre più il volto di Dio padre e la grande bellezza di questo rapporto filiale, un rapporto d’amore.

Comprendere ed accostarsi allo studio della teologia mi porta a ricercare la bellezza della fede, non come atto soltanto razionalistico, ma come un approfondimento che mi auguro sempre di vivere nel concreto della vita quotidiana, insieme ai fratelli. Guardo allo studio della teologia nello spirito del servizio, quello Spirito che ci spinge a condividere e a testimoniare quello che viviamo, cercando di tenere gli occhi fissi su Gesù, testimoniando l’Amore di Dio rivelato, non ai sapienti, ma per i piccoli del mondo.

Mi piace ricordare una frase del servo di Dio, il giudice ucciso dalla mafia, Rosario Livatino, che dice: “Alla fine della vita non ci verrà chiesto quanto siamo stati credenti, ma credibili”. La teologia, aiuta a rispondere alle esigenze e alle questioni del mondo, annunciando sempre Cristo, crocifisso, morto e risorto, che è la pienezza della nostra vita.

Con grande gioia, condivido questo percorso con tanti compagni; molto importante per me è il confronto, che apre sempre una strada fraterna, comunionale e di continua crescita umana e spirituale. Ringrazio il Signore per questo grande dono, sperando di poter crescere sempre di più nella conoscenza del suo amore, ma soprattutto di viverlo là dove il Signore mi dona di vivere e di servire la Chiesa.

Michele Turrisi

VITA IN PARROCCHIA

L’esperienza di “seminatario” in parrocchia (simpatica crasi tra le parole seminarista e Seminario, inventata da un ragazzo incontrato in parrocchia) in questi anni di formazione è stata per me ben più di una sorta di tirocinio o di miglioramento delle (più o meno acquisite) competenze tecnico-pratiche.

Il ruolo, se così si può dire, del seminarista in parrocchia non sempre mi è stato chiaro, soprattutto agli inizi, dopo l’esperienza pastorale nella mia parrocchia di origine a Santa Rosa da Lima. Nessuno infatti mi aveva spiegato concretamente che cosa volesse dire essere seminarista in parrocchia e che cosa dovessi fare. Piano piano ho capito che in realtà più che un “ruolo” funzionale a qualcosa, si tratta di “essere”, o meglio ancora di “esserci”. Sì, un vero e proprio “stare” nella comunità a cui si è mandati, cioè immergermi nella vita delle persone che incontro, in particolare dei ragazzi e dei giovani, mettendo costantemente al centro, anche se a volte in maniera implicita, l’incontro con Cristo.

Posso affermare che, proprio partendo da questa visione, non solo ho avuto ed ho la possibilità di tessere relazioni, il che richiede tanto tempo, che si sono rivelate molto belle e arricchenti ma di poter rendere in certo qual modo fecondo, il mio servizio attraverso esse con pazienza, pur con tutti i limiti, e nel complesso tutto ciò è una vera e propria grazia. L’esperienza della vita in parrocchia mi stimola ad agire in prima persona, “mettendo le mani in pasta” e a vivere a ritmo di dono e, in questo senso, a crescere umanamente, anche sul piano affettivo. E questa vita donata nel servizio pastorale mi riporta necessariamente a consolidare due tipi di esigenze personali: da un lato, la ricerca di una vita unificata e armonica, di un cuore integro e unito, dall’altro quella “conditio sine qua non” che è la vita spirituale. Proprio l’incontro con le persone, con le loro storie, le loro speranze, le loro gioie ed attese ma anche con i loro drammi, le loro fatiche e ferite mi ha aiutato e mi aiuta a scorgere i segni della presenza e dell’azione di Dio.

Ed è così che correre all’altare la mattina, prima di buttarmi nella missione, e la sera, una volta conclusa la giornata, per intercedere per le persone incontrate, è per me un’esigenza impellente, e quando manca ne risento realmente: solo infatti davanti al Signore, tutto quello che vivo trova il suo senso. Tale esigenza “orante” si dimostra essere l’occasione di sentire in me fluire il sangue di Cristo, di incontrarlo e di vedere la mia vita sotto il suo sguardo.

È nella preghiera che trovo la forza e lo slancio, soprattutto quando ciò che mi aspetta è più grande di me, di agire, chiedendo unicamente il dono del Santo Spirito. È nella preghiera, carica di questi sentimenti e di questi incontri, che affido tutto e tutto mi affido. Due cose infine caratterizzano la mia vita in parrocchia. La prima è la trasformazione di quanto ho studiato nel percorso teologico in cibo per gli altri, per quanti incontro, sia che si tratti di una catechesi con gli scout, o di un campo estivo, o di una chiacchierata, di un’omelia, ed è molto importante per me questo aspetto perché dà uno scopo agli anni di studio.

La seconda cosa è poi la fortuna di vivere con i sacerdoti in parrocchia, di conoscere da vicino che cosa sia la vita del pastore, di imparare ad assumere la globalità della vita pastorale, ma ancor di più quell’ansia pastorale, che, proprio alimentata dagli incontri con la gente e dall’incontro con Cristo, rientra nell’ottica di quella affettività che sento realizzata per me in quella che viene chiamata carità pastorale, la carità stessa di Cristo buon pastore.

Francesco Ariaudi

RICONQUISTATI DALL’AMORE DI CRISTO

Dopo la sessione esami e una settimana trascorsa nelle parrocchie, dal 29 gennaio al 4 febbraio la nostra comunità del Seminario si è ritirata a Susa presso la casa di spiritualità Villa San Pietro, gestita dalle suore di San Giuseppe, per vivere gli esercizi spirituali: un tempo prezioso per approfondire l’amicizia con il Signore.
Quest’anno ci è stata proposta l’esperienza degli esercizi spirituali personalmente guidati e siamo stati da subito introdotti al metodo di preghiera ignaziano che fornisce alcuni strumenti utili per sentire e gustare profondamente la Parola di Dio e per entrare in un dialogo vero e schietto con il Signore, come tra amici.


Il primo giorno abbiamo meditato il prologo del Vangelo di Giovanni (“Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”) e abbiamo chiesto la grazia di essere aiutati a vedere come il Signore ha operato e opera nella nostra vita.
Da questo punto di partenza comune ognuno ha poi preso la strada per la quale lo Spirito l’ha condotto. Ciascun seminarista è stato assegnato ad uno dei quattro componenti dell’equipe: un laico, un padre gesuita, una suora e un sacerdote diocesano; persone molto diverse tra di loro ma accomunate da una fede profonda. Ogni giorno avevamo un appuntamento con la guida per condividere il vissuto di preghiera e ci venivano così proposti nuovi brani da meditare e nuove grazie da chiedere.


Oltre le meditazioni personali, non sono mancati i momenti di preghiera comunitaria: le lodi, i vespri, la Messa e l’adorazione eucaristica. Tutti i giorni sono stati accompagnati da un grande silenzio che non è stato un semplice non parlare, ma uno spazio di dialogo intimo con il Signore e un’apertura del cuore alla Bellezza che si è fatta presente in molte forme.
Personalmente, questo silenzio mi ha permesso di gioire per il creato con le sue maestose montagne imbiancate, il tepore del sole, il soffio del vento, il sapore dei cibi e soprattutto mi ha fatto guardare con occhi nuovi i volti dei miei compagni di viaggio. Questi esercizi mi hanno permesso di tornare con essenzialità a vivere il mio rapporto personale con Cristo: è Lui, infatti, che per primo mi è venuto incontro e – da quando mi sono lasciato conquistare dal suo amore – la mia identità non può essere separata da Lui. Sono un figlio prezioso di un Padre misericordioso e buono.


L’ultima sera abbiamo condiviso le nostre esperienze e tutti siamo stati grati del tempo che abbiamo trascorso con il Signore. Mi ha impressionato il fatto che ognuno di noi ha meditato testi diversi, ognuno ha fatto percorsi diversi, eppure tutti abbiamo approfondito la comune amicizia con il Signore e tutti abbiamo riscoperto la gioia di averlo incontrato nelle nostre vite; è questo che ci rende veramente fratelli. Intuisco allora che il più grande contributo che possiamo dare al mondo è il nostro sì quotidiano a Cristo, perché solo così ci inseriamo in questa grande storia di amore di cui tutti hanno – più o meno consapevolmente – bisogno. Il canto d’ingresso dell’ultima Messa della settimana esprime bene la promessa che abbiamo avuto la grazia di verificare: “Tu sei un Dio fedele per l’eternità”

IL VASSOIO DELLA CARITÀ

Se talvolta ragiono sull’altisonante parola “Carità”, capita di dire a me stesso: «È sbagliato. Io ho sbagliato. Quando mai ho vissuto un gesto di vera Carità?!». Arrivo a queste conclusioni perché è chiaro che con la parola “Carità” non mi riferisco strettamente all’elemosina pecuniaria data a un senzatetto. Ma neppure a un qualunque altro libero gesto di bontà che cade nel rischio di “esser fatto per esser visto dagli altri” o di venire, in qualche modo, “elogiato da me stesso”. In tal caso diventerebbe una “carità da vetrina”. Quindi mi domando se sia una finta carità, senza la maiuscola lettera “C” iniziale. È altresì giusto chiarire che non c’è proprio nulla di male nel dare, con liberalità, beni materiali o il proprio tempo a chi ne ha bisogno.

Ma allora come insegnare a vivere e crescere nella Carità? Mi ha sempre molto colpito la risposta di Gesù che ci dona l’evangelista Luca: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico …». È così che comincia la parabola del buon samaritano. Gesù non fa un trattato filosofico o teologico sulla parola “Carità”. Gesù passa direttamente all’azione. Il seminario ci propone delle esperienze di “carità attiva” attraverso dei servizi di volontariato presso alcuni enti presenti sul territorio di Torino. Proposta “buona e giusta”. Ritengo, tuttavia, che la migliore sfida e crescita di “carità attiva” che il seminario ci offre sia nella vita comunitaria. Cerco di spiegarmi meglio. È facile amare “il lontano”. Sia chi è lontano geograficamente, come un bambino in difficoltà di un altro continente, sia chi “lontano” temporalmente, ad esempio una persona cara che vedo una volta all’anno. Ma amare chi mi è accanto tutti i giorni, amare chi mi sta vicino, gomito a gomito, per la maggior parte del tempo è un altro paio di maniche. Pensiamo al collega di lavoro più antipatico, oppure, nel mio caso, al compagno di seminario.

In questo periodo stiamo tutti facendo i conti con un’altra ondata influenzale. Non per Covid, ma ha avuto il suo impatto anche nella nostra comunità. In seminario, quando qualcuno è ammalato, resta nella propria camera. Sono i fratelli di comunità che si devono preoccupare di portare il necessario al fratello ammalato. Forse sembra una sciocchezza, ma benedico e ringrazio, per quel vassoio con la colazione, il pranzo o la cena del fratello ammalato. Come qualunque altro episodio della vita, il dover portare il vassoio dal pian terreno al secondo o al terzo piano, può essere vissuto in modi molto diversi. Forse può esser visto come una scocciatura, una perdita di tempo. Forse come un qualcosa da fare per farsi vedere. Eppure, nella quotidianità e ripetitività del gesto, ciò che resta non è un dono o un’attenzione fatta ad un fratello ammalato, ma un dono che, attraverso il fratello ammalato, viene fatto a chi sporge quel vassoio.

Irvin

INSTANCABILI, MITI, PERSEVERANTI

Quando il 22 ottobre, io e i miei tre compagni, Fabio, Francesco e Luca, siamo stati ordinati diaconi, all’inizio della Messa abbiamo ascoltato una bella preghiera con cui si chiede che coloro che ricevono il ministero del diaconato siano “instancabili nell’azione”, “miti nel servizio della comunità”, “perseveranti nella preghiera”. Sono parole che mi hanno colpito profondamente e che penso possano riassumere bene il ministero di un diacono. Sono parole che richiedono di diventare sempre più vita vissuta e in quest’ultimo mese ho iniziato ad assaporarne il gusto.

Essere instancabile non significa non essere mai stanco, ma è l’atteggiamento di chi è disponibile a mettersi in gioco nei piccoli e grandi servizi che vengono chiesti con il desiderio di fare bene.

Mite è colui che vive il servizio con gioia, che prova a metterci il sorriso, nelle situazioni più disparate e con le persone più diverse.

Perseverante, in questo caso nella preghiera, è colui che ogni giorno prova ad affidare tutto al Signore, sapendo che quella preghiera, invece di essere un “dovere”, è nutrimento per la propria vita e per il mondo.

Come fare tutto questo? Direi impossibile!

Sì, perché se penso di farcela soltanto con le mie povere forze, fallisco. Per me infatti, è importante ricordare ogni giorno che il ministero del diaconato è innanzitutto un dono, qualcosa che ho ricevuto. Un dono non lo si riceve per qualche merito particolare, ma perché qualcuno desidera riempirti la vita gratuitamente, così come sei, con tutti i pregi e nonostante i limiti, in definitiva perché ti ama. 

Allora tutto questo mette pace perché so che non dipende totalmente da me, ma da Dio; ciò che spetta a me è rendermi disponibile a Lui. Prima di essere ordinati diaconi, infatti, abbiamo messo le nostre mani in quelle del vescovo, in segno di abbandono e di disponibilità.

In questo primo periodo un aiuto grande è quello della comunità. Noi diaconi siamo ancora parte della comunità del Seminario, in cui siamo cresciuti per diversi anni, ma allo stesso tempo ci immergiamo sempre di più nelle comunità parrocchiali in cui prestiamo il nostro servizio. È fondamentale accorgersi di questo accompagnamento fedele che ci ricorda che non siamo da soli, ma che viviamo tutto nella Chiesa.

Allora essere “instancabili, miti e perseveranti” acquista ancora più senso, perché significa non tenere nulla per sé, ma ridonare tutto a Dio e ai fratelli.

-Stefano B.

REMEBER ME – GMG DIOCESANA

In attesa della Giornata Mondiale dei Giovani 2023 di Lisbona,
sabato 19 novembre abbiamo vissuto la GMG diocesana nel chiostro della Facoltà Teologica: una bella occasione per incontrarsi tra giovani, ritrovare amici, compagni di viaggio dalle GMG passate e trasmettere ai più giovani il fatto che certe emozioni sono ancora molto vive, anche se sono passati alcuni anni.

Al termine della serata conviviale, arriviamo però al centro “nevralgico” della GMG: la preghiera in Cattedrale guidata dal nostro Arcivescovo Roberto. Lui ci ha portato a riflettere sul brano del ladrone buono, sulla sua richiesta a Gesù, dando il focus a Gesù, pupilla dell’occhio del Padre, cioè occhio attraverso cui Dio Padre guarda agli uomini, a noi, a me.


Gesù ci guarda con uno sguardo di amore che riesce a perdonare ciò che noi troviamo imperdonabile e inammissibile, con uno sguardo che accoglie anche ciò che noi troviamo inaccettabile; proprio quel Gesù crocifisso, che ci rivela tutto l’amore di cui è capace Dio per gli uomini, anche per i più lontani da Lui.

Spesso capita di pensare che per essere apprezzati e amati non dobbiamo far vedere i nostri limiti, i nostri difetti, il fatto che non siamo così bravi come gli altri immaginano o che per essere apprezzati e amati dobbiamo fare in modo che non emergano quelle parti che ci spaventano di più.

E così finiamo per indossare maschere davanti a chi ci vuole bene, a chi ci circonda, a chi frequentiamo anche tra gli amici… 

Il pegno da pagare per poter sentire un po’ di apprezzamento e un po’ di amore, è quello di una certa menzogna, che consiste spesso nel non fare vedere agli altri quella parte di noi che ci sembra meno amabile.

Ma abbiamo potuto riconoscere grazie al nostro Arcivescovo che ci sentiremo davvero apprezzati e amati solo quando avremo la possibilità di presentarci senza maschere, per quello che davvero siamo, senza avere più paura di noi stessi. Finché non ci troveremo davanti a qualcuno che ci può dire «Ti voglio bene» o «Ti amo», conoscendo anche la parte tenebrosa di noi, anche quegli aspetti che vorremmo tenere nascosti, quelle parti che noi stessi facciamo fatica a vedere e amare di noi… non faremo mai l’esperienza autentica dell’ amore. 

Solo Cristo riesce a guardarci sempre, in ogni momento con un occhio acceso d’Amore: amore per me e per ognuno di noi.

In attesa dell’incontro di Lisbona, questo può diventare uno spunto importante di riflessione per riconoscerci fragili e per questo speciali agli occhi di Dio e dei fratelli che ci circondano. E arrivare così un giorno a dire, come Olivier Clément, teologo ortodosso, al termine della sua vita: «Finalmente Olivier Clément non ha più paura di Olivier Clément»

Saverio

VITA DA VICEPARROCO

Questione di fedeltà

Con grande piacere e con una punta di imbarazzo ho accolto l’invito del Seminario a raccontare qualche cosa dei miei primi mesi da prete. Sono stato ordinato il 4 giugno scorso e da settembre ho iniziato il mio servizio da viceparroco nelle quattro parrocchie di Grugliasco.

Sono fermamente convinto che la fedeltà alla vocazione ricevuta chieda di essere continuamente motivata e custodita. Non esiste vocazione – qualunque essa sia -all’interno della Chiesa che si possa vivere in autonomia e senza l’aiuto di qualcosa che la custodisca e la alimenti. Il passaggio dalla vita da seminarista alla vita in parrocchia nelle vesti di sacerdote è una piccola rivoluzione copernicana. Se prima mi sentivo saldamente custodito dal ritmo accuratamente scandito del Seminario, dalla vita fraterna e dalla liturgia comunitaria, ora devo accettare di vivere le stesse cose secondo delle forme e dei tempi diversi. Una grande sfida per tutti i preti diocesani – e non solo per quelli di recente ordinazione – è quella di osservare una regola di vita per garantire tutto ciò che è essenziale al loro ministero.

Al momento avverto l’esigenza di trovare un equilibrio tra l’impegno pastorale, la preghiera e la formazione personale, senza trascurare mai di coltivare le relazioni personali. Da questo punto di vista sono stato molto aiutato dal ritrovarmi in comunità parrocchiali molto vive, che con molta gioia e pazienza mi stanno accogliendo.

In definitiva credo che la prima e insostituibile forma di custodia del mio ministero sia il ministero stesso, con tutto quello che esso prevede e comporta. La prima regola da osservare è quella della docilità; la docilità nel fidarsi della Chiesa e nel lasciarsi plasmare da tutto ciò che essa chiede ai presbiteri diocesani; nulla di più e nulla dimeno.

Sono convinto che la genuinità del nostro ministero sacerdotale si misuri sulla fedeltà, ma non sulla nostra. Sulla fedeltà di Colui che ci ha chiamati a seguirlo e servirlo nella sua Chiesa. Ben presto si fa esperienza che sarebbe misera cosa fondare tutto sulla nostra adeguatezza e sulle nostre sole forze. È la fedeltà di Cristo la pietra sulla quale vale la pena costruire. Ricordando sempre con fiducia le parole dell’apostolo Paolo: «Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso» (2Tm 2,11-13).

don Giacomo Cisero

RITIRO DI INIZIO ANNO

Come tutta la Diocesi di Torino, anche il seminario, con l’arrivo di settembre ricomincia il suo cammino e lo fa con un momento di ritiro: dal 22 al 25 settembre in Valle d’Aosta, accolti nel priorato di Saint Pierre. Ma da dove ripartire? In un contesto come quello attuale, con una guerra alle porte dell’Europa, una crisi finanziaria sempre più incombente, tante incertezze e ancora l’ombra della pandemia che serpeggia nell’aria, dove ritrovare lo slancio e il coraggio per riprendere il cammino della vita e del discernimento vocazionale? Per rispondere a queste domande ci hanno aiutato le meditazioni del nostro Vescovo mons. Roberto Repole e del rettore della casa di spiritualità di Saint Pierre don Albino Linty-Blanchet. Il nostro Vescovo ci ha guidati attraverso la meditazione su tre tappe fondamentali del cammino di discepolato di Maria, ricordandoci che ciò che può veramente sostenere il nostro cammino è il far memoria dei momenti della nostra vita in cui il Signore si è fatto presente e vicino a noi. E così quanto più tratteniamo nel nostro cuore questi momenti, tanto più, come è successo a Maria che va in fretta a visitare Elisabetta, cresce in noi il desiderio di verificare quei segni di speranza che ognuno di noi ha intercettato nella propria storia personale. Il Vescovo Roberto ci ha indicato il cammino che porta alla maturazione della speranza, una speranza che può essere condivisa, anzi che chiede di essere sempre condivisa. Tale speranza può essere davvero la risposta ai tanti drammi di questo mondo. La beatitudine di Maria, sta nell’aver creduto. Quanto più in ognuno di noi crescerà la certezza della speranza portata nel mondo da Gesù, tanto più crescerà la nostra beatitudine e come ci ricorda anche papa Francesco, sapremmo essere “artigiani di pace”. Questo cammino, proprio perché umanissimo e perché è il cammino fatto da Gesù stesso, non è senza fatiche e senza croci. Il Vescovo ci ha indicato la fatica più grande: la non accoglienza dell’annuncio di speranza che la fede porta. Ci ha chiesto: “siete disponibili a stare difronte alla non accoglienza di Cristo?” cioè siete davvero in grado di amare l’altro per come è davvero, senza aver pretese, calcoli o tornaconti? Questa è la sfida più grande, ma allo stesso tempo la verifica del cammino di fede che stiamo facendo. Certo il rifiuto di Cristo è come una spada che trafigge l’anima, ma allo stesso tempo è l’occasione per renderci conto di ciò che ci rende davvero liberi. La sfida che ci ha lanciato mons. Repole è quella di “abitare il cuore del Padre”, cioè di crescere nel rapporto con Lui, lasciarci abbracciare dal Padre per poter a nostra volta abbracciare tutti quelli che incontreremo.

Altra grande perla preziosa è stata la meditazione di don Albino Linty-Blanchet: ci ha sfidati, attraverso il brano dell’incontro, nella casa di Betania, tra Gesù, Marta e Maria, a ripartire dall’ unica cosa necessaria, la Sua presenza. Don Albino ha utilizzato tre parole chiave per descrivere questa pagina di Vangelo: ospitalità, servizio e preghiera. Tre parole strettamente collegate tra di loro, ma che allo stesso tempo nascono dall’incontro con Gesù vivo e presente. Ci ha, inoltre, testimoniato che una vera possibilità di accoglienza, di servizio e di preghiera, non nascono come sforzo nostro di fare (anche Marta, infatti era piena di buoni propositi, ma si è ritrovata appesantita dalle molte cose da sbrigare, ed ha avuto bisogno del richiamo di Gesù per scoprire il gusto vero delle sue attività), bensì dal riconoscere Gesù presente nella nostra vita. Presenza che è sempre nuova, capace di illuminare tutti i “tempi” della nostra vita. Con Lui infatti si vive in una novità continua, non tanto per le cose che si faranno, ma per la scoperta sempre eccezionale che Lui è con noi. Da questa scoperta ha origine l’umiltà, cioè la consapevolezza che non siamo noi i padroni della nostra fede, ma che questa ci è donata, e soprattutto che è Lui e solo Lui che ci è necessario per vivere, per sperare e per amare davvero. Il cammino di fede che ci aspetta diventa entusiasmante proprio a partire da questa umiltà profonda: non più la nostra capacità di fare, ma il nostro bisogno di Lui e contemporaneamente il dono che proprio Lui ci fa della fede.

Ovviamente non sono mancati i momenti di convivialità e di più spensierata ri-creazione, tuttavia sono stati giorni intensi e molto sfidanti, soprattutto grazie alle meditazioni del nostro Vescovo Roberto e di don Albino. Ci hanno rimesso di fronte a noi stessi, e di fonte a Colui che ci chiama incessantemente. Nel nostro “sì” a Lui sta la nostra santità, oltre che la nostra vocazione (don Albino).

Giovanni

UNA TERRA PROMESSA LARGA UN TAPPETO

Generalmente ogni seminarista guarda al giorno della sua ordinazione presbiterale futura come a una terra promessa che lo attende; essa ha i contorni di quel tappeto sopra il quale si prostrerà durante il rito di ordinazione. Questo rappresenta effettivamente la meta e il termine di un lungo cammino di preparazione, discernimento e formazione. Salvo poi realizzare che in realtà quel tappeto è il punto di partenza di qualcos’altro e che quindi sarebbe meglio paragonabile a un tappetino elastico che ti proietta in avanti nel ministero futuro.

In ogni caso ti aspetti che tutta la cattedrale il giorno dell’ordinazione si regga in piedi appoggiata unicamente sopra quel paio di metri quadrati di tessuto.

Così in parte mi immaginavo sarebbe stato il giorno della mia ordinazione presbiterale che ha avuto luogo sabato scorso, presieduta dall’arcivescovo mons. Roberto Repole. Con me gli altri ordinandi don Federico, don Mauro e don Samuele.

La liturgia del rito di ordinazione supera qualsiasi aspettativa e riesce ad esprimere meglio di qualsiasi altra parola quale sia la vera sostanza del ministero ordinato e come certe precomprensioni si sgretolino di fronte alla realtà che si celebra.

Realizzi così che quel tappeto non è né una terra promessa, né un trampolino di lancio e che in realtà non vale nulla e meno ancora valgono quelli che ci sono distesi sopra.

Scopri che in quel giorno tutta la cattedrale è in realtà appoggiata sul silenzio, che nella liturgia esprime la potenza dello Spirito che agisce. Nel silenzio infatti si consuma quel gesto chiave dell’imposizione delle mani del vescovo seguito dagli altri sacerdoti del presbiterio. Le tue parole non contano nulla; durante la prostrazione difficilmente trovi il fiato per rispondere con la voce alle litanie che invocano l’assistenza celeste dei santi. Addirittura, in quel momento, il tuo stesso volto è nascosto, rivolto contro il suolo. Il silenzio, l’ascolto, la prostrazione ti ricordano che il protagonista di quel giorno è e rimane il Signore Gesù, Risorto e vivo. Lo stesso nel cui nome possiamo dirci cristiani e lo stesso che ci ha scelti tra gli uomini per seguirlo, chiamandoci per nome nella carne della nostra storia. Il paradigma del nostro futuro ministero, come ha suggerito l’arcivescovo nella sua omelia, è quello di Pietro, un poveraccio nelle cui mani il Risorto ha deciso di consegnarsi nonostante i suoi trascorsi tormentati e, a tratti, drammatici. Nella consapevolezza che si diventa pastori col cuore di Cristo solamente a condizione di non dimenticarsi mai di essere anzitutto discepoli mendicanti di misericordia che camminano dietro il Maestro.

don Giacomo C.